Sognoelektra Projectart Art | Periodico di Arte Contemporanea
 
 
AGENDA EVENTI
a cura di Valentina Mariani

_______________________


Un racconto di Sarajevo.

Un breve viaggio nel cuore dei Balcani.

 

 

   
 
 
Sarajevo, la Ba_ar_ija - Foto V. Mariani
 
 
Un racconto di Sarajevo.
Un breve viaggio nel cuore dei Balcani.
Sarajevo, una veduta del mercato coperto - Foto V. Mariani
 
Sarajevo non è poi così lontana. Quindici ore di auto, partenza al calar della sera, la notte attraverso la nebbia autunnale della Slovenia, poi della Croazia…non si vede a un palmo dal naso, l’aria è gelida. Non passa nessuno, né nella nostra direzione, né in quella opposta. Dobbiamo farci strada da soli. Un’unica sosta, il silenzio colpisce sempre come se non lo si fosse mai sperimentato. E il viaggio prosegue, sempre dritti. La Bosnia ci accoglie alle prime luci dell’alba. E’ autunno, vediamo una terra di alture e di rocce, alture ricoperte di boschi, i boschi rivestiti dei colori caldi della stagione che annuncia il freddo. E qui il freddo, quando arriva, dicono sia pungente. Nevica fitto, in Bosnia. Nel 1984 Sarajevo ospitò le Olimpiadi Invernali; ora, però, tutti la ricordano perché c’è stata la guerra. Io nell’84 non ero nemmeno nata, ma la guerra della Ex Jugoslaviaquella me la ricordo bene: ero una bambina e mi faceva paura. E così, cosa ci si aspetta, quando si va a Sarajevo per la prima volta? Ci si aspetta una città distrutta e fatiscente, persone ferite, povertà…la neve anche, forse. E invece.
C’è il sole, quando arriviamo, e basta un maglione, fa ancora caldo.
Entriamo a Sarajevo e attraversiamo un lungo viale, la parte nuova, quella occidentale, con i condomini e i grattacieli.
“Guardate, quello giallo è l’Holiday Inn, dove stavano i giornalisti”.
L’Holiday Inn affaccia sulla strada Zmaj od Bosne – Dragone di Bosnia. Durante l’assedio veniva chiamata la “via dei cecchini”. La città sembra costruita sul fondo di una tazza: si può camminare sul bordo e vederla tutta intera, lì, sotto di te. I cecchini stavano appostati proprio lì sui bordi, e sparavano a chiunque, uomo, donna o bambino, camminasse sulla Zmaj od Bosne. Noi aspettiamo un po’ a salire là sopra. Rimaniamo sul fondo, lo attraversiamo, lo viviamo. Siamo qui con un amico che conosce Sarajevo come le sue tasche e conosce tante persone. Ci sistemiamo in un ostello nella città vecchia, riposiamo un po’, il viaggio è stato lungo. Poi, prima di scoprire la città, scopriamo le persone.
 
Sarajevo da uno dei postamenti dei cecchini - Foto V. Mariani
bosanska kafa, il caffè bosniaco
 
Usciamo dal centro di Sarajevo, andiamo a casa di un ragazzo che vive con la mamma e con Baba, la nonna. Il papà è morto durante la guerra. Ci togliamo le scarpe prima di entrare, qui si usa così. Ci sediamo in una piccola cucina. Baba è vecchissima, la sua pelle è tutta raggrinzita, il volto e le mani sono un lenzuolo di rughe. Ogni ruga sembra una storia.
“How old is she?”
“We don’t know. She’s very old”
I suoi occhi azzurri e il suo sorriso, la sua incapacità di comunicare con noi sono disarmanti, ma in qualche modo ci fanno sentire a casa. Forse perché continua a sorridere per tutto il tempo. Beviamo il nostro primo bosanska kafa, il caffè bosniaco. E’ delizioso, sembra una delle bevande più buone che io abbia mai assaggiato.
E’ il primo di tanti che berremo. Quando saremo ospitati, poco dopo, da una famiglia numerosissima, coinvolti senza aver potuto rifiutare nei giochi dei bambini più piccoli; quando, seduti a un tavolino al sole, avvertiremo il bisogno di essere parte della città, della sua gente. Seguire il piccolo rituale del caffè, con il pentolino di rame e la zolletta di zucchero, i pensieri a decantare insieme al liquido: qualcosa, insieme alla polvere scura, rimane sempre sul fondo. L’ospitalità innata della gente, tutta racchiusa nel semplice gesto di entrare nel cuore della casa – la cucina – scalzi, ci lascia senza fiato. Il sonno ha il sopravvento.
 
Il giorno dopo. Bašcaršija, la zona più antica, il cuore pulsante della città. Il nome è di origine turca, indica la zona del mercato. E’ tutto ricostruito, sembra che non ci siano mai state le bombe. Ci sono le botteghe degli artigiani che lavorano il rame, tavole calde, bar. Ci avventuriamo nel mercato della frutta e della verdura, poco lontano da qui: il mercato di Markale. Ci sono fiori e tabacco. Donne con il velo, una suora dai tratti orientali, uomini che contrattano il prezzo dei mandarini. In fondo c’è una parete costellata di nomi, i nomi delle vittime dei due attentati avvenuti qui, del 1994 e del 1995, negli anni centrali dell’assedio. Lanciarono delle granate sulle persone in cerca di cibo; come una volta uccisero nove persone in fila per prendere acqua a una fontana. E un’altra dei ragazzi che giocavano a calcio.
Nonostante il ricordo della morte così vicino, la vita va avanti. La morte provocata dall’odio, da differenze etniche, religiose. Sarajevo è una città di incontro e di mescolanza. A camminare per le sue strade sembra che la gente abbia molto da insegnarci. Viene chiamata la “Gerusalemme dei Balcani”. Qui convivono quattro religioni: ci sono gli ebrei con le loro sinagoghe, i cristiani cattolici con le loro chiese, altre chiese per gli ortodossi e poi, le moschee. I canti dei muezzin che risuonano nell’aria, lanciati dai minareti disseminati ovunque, si mischiano all’odore della città e danno sostanza a ciò che ricorderai.
 
 
il mercato di Markale - Foto V. Mariani
Un cimitero accanto a un bar
 
Sarajevo ha un odore tutto suo. C’è puzza di plastica e gomma bruciata, nell’aria, sempre, a qualunque ora. Bruciano i rifiuti direttamente nei cassonetti, che sono griglie metalliche, fatte apposta. Ma c’è anche l’odore del kafa, che nella Bašcaršija si confonde con quello della carne. Mangiamo tanta carne in questi giorni, bevendo yogurt bianco. Questo è l’odore di Sarajevo e rimane nelle narici anche quando torni a casa. Capita di sentire qualcosa di simile, a volte, passeggiando. Un istante, brevissimo, ma sufficiente per ricordare: questo è odore di Sarajevo. Poche cose stimolano il ricordo e lo rendono perfetto come sanno fare gli odori.
Visitiamo la cattedrale cattolica, la chiesa del Sacro Cuore di Cristo, costruita nel 1889 da Josip Vancaš. Attraversiamo una via di negozi, qui non è molto diverso dalle nostre città. In pochi minuti siamo davanti alla cattedrale serbo – ortodossa, dedicata agli arcangeli Gabriele e Michele; in origine era una chiesa cattolica. Nella piazza davanti all’edificio c’è una statua, un uomo nudo che regge delle circonferenze intersecate tra loro; sulla base c’è scritto: “L’uomo multiculturale salverà il mondo”. Quanto coraggio ci vuole per crederci, proprio qui. C’è chi dice che i Balcani siano ancora una bomba inesplosa. C’è chi dice che “le cose sono state lasciate a metà”.
Poco più in là, un gruppo di uomini, per lo più anziani, sta giocando a scacchi, la scacchiera è formata dalle mattonelle quadrate della piazza, i pezzi sono alti mezzo metro. Ci fermiamo per un po’ a guardare. Scopriamo che tutti i giorni, a qualsiasi ora, prima che di sera i pezzi vengano chiusi a chiave in un cassonetto, qualcuno è qui a giocare.
Proseguiamo e siamo di nuovo nella Bašcaršija. Qui sorge la moschea più importante di Sarajevo, una delle più celebri di tutta la Bosnia. E’ la moschea Gazi Husrev – Beg, costruita nel 1531. Poco distante c’è il mercato coperto di Brusa – Bezistan, edificato nel 1551.
 
C’è un particolare che non sfugge a Sarajevo. All’inizio, soprattutto finché rimani nel centro, puoi anche pensare che la guerra non ci sia mai stata, che la città non sia rimasta sotto assedio per cinque anni. Hanno ricostruito tutto, ormai. Sembra che il tempo sia trascorso come passa ovunque, lasciando dei segni, non delle ferite. Invece, a un certo punto, dopo aver camminato senza sosta, ho voglia di un altro caffè. Ci sediamo in un bar in una via del centro. Dietro di noi c’è una piccola moschea. Accanto, a un livello inferiore rispetto alla strada, c’è un cimitero. I cimiteri musulmani sono diversi. Un prato verde, niente fiori. Solo delle lapidi bianche, come delle torri in miniatura, senza finestre. All’improvviso mi rendo conto che Sarajevo è piena di cimiteri. Ad alzare lo sguardo si vede come le salite che conducono ai bordi della tazza e che lasciano la città qui sul fondo, siano piene di macchie bianche, come questa accanto a me. Sarajevo è circondata da cimiteri, se ti fermi a guardare, le date si assomigliano tutte.
 
 

Alcuni cimiteri di Sarajevo
Uno scorcio della città di Sarajevo

Foto by V. Mariani

 

   
Passeggiamo sul lungo fiume, la Miljacka, che taglia Sarajevo a metà, da est a ovest. Ci sono molti ponti. Uno di questi, il ponte Vrbanja, è il simbolo della città, un monumento al dolore. Oggi è dedicato alle prime due vittime dei cecchini, uccise nel 1992: Diliberovic e Sucic, una studentessa e una pacifista, una bosniaca, l’altra serba. Qui trovarono la morte anche due innamorati che tentarono di fuggire, nel 1993, Admira Ismic e Boško Brkic. Sempre in quell’anno, qui fu ucciso anche Moreno Locatelli, un frate minore italiano che faceva parte dell’associazione pacifista Beati i costruttori di pace, mentre con altre quattro persone portava dei fiori in ricordo di Suana Diliberovic.
 
Un cimitero di Sarajevo
Foto V. Mariani  
 
Attraversiamo uno di questi ponti e cominciamo a salire. Le strade si inerpicano all’improvviso e dopo poco ci troviamo proprio lì, sui bordi. Attraversiamo dei cimiteri, durante la guerra ci piazzavano le mine. Ci sediamo su un muretto. Da qui, dove stavano appostati i cecchini, si vede tutta la città, come i fondi del kafa mischiati allo zucchero nell’alveo della tazzina di ceramica. In lontananza si intuisce l’aeroporto. Durante l’assedio l’unica speranza di fuga era un tunnel che passava sotto quella zona. La città sembra avvolta da una strana nube di fumo, è quasi il tramonto. Spiccano i minareti, sparsi qua e là. Sulla strada da cui siamo arrivati, una signora anziana, con il capo coperto da un velo, si appoggia a un parapetto. Davanti a lei c’è un cimitero, un altro. Sta ferma lì e guarda in basso, forse più lontano. Da qui si possono prendere le distanze. Ed è ammirandola da qui che la ricordi per sempre. Ci sono città che si possono descrivere; altre, come Sarajevo, si possono solo raccontare.
 
Il fiume la Miljacka - Foto V. Mariani
La fontana della Ba_ar_ija
Segnala
Valentina Mariani
Un racconto di Sarajevo.
Un breve viaggio nel cuore dei Balcani.

Viaggio a Sarajevo, Bosnia – Erzegovina, ottobre/novembre 2010

Pubblicazione Novembre 2011
 



Valentina Mariani
Valentina Mariani (Varese, 1988) dopo il diploma al liceo classico, ha conseguito una laurea triennale in Lettere Moderne con curriculum storico – artistico presso l’Università degli Studi di Pavia. Attualmente è iscritta alla laurea magistrale in Storia delle Arti dall’Antichità al Contemporaneo nello stesso ateneo. Da sempre appassionata di scrittura, negli anni passati ha partecipato con buoni risultati a diversi concorsi letterari. Collabora con alcune testate web che si occupano di storia dell’arte ed esposizioni temporanee.
 
 
La Cattedrale Cattolica
L'uomo multiculturale salverà il mondo - La Cattedrale
Serbo-Ortodossa
La moschea di
Gazi Husrev
– Beg
Fedeli in preghiera presso la moschea di Gazi Husrev – Beg
Foto V. Mariani
 

Mappa di Sarajevo
 
 
copyright by sognoelektra – tutti i diritti riservati